Diventare poetessa ai tempi di Dante: storia di Gaia Da Camino
- E.
- Jul 20
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“Questa è la storia di come, a volte, per ritrovare noi stessi, dobbiamo allontanarci da chi dice di amarci.
Sono Gaia da Camino. Questa è la mia storia.
Mia madre era morta quando avevo iniziato a muovere i primi passi su questa terra. Mio padre, stimato signore di Treviso, godeva di aver fama di uomo saggio e giusto, tanto che persino l’Alighieri, costretto all’esilio, aveva bussato alla sua corte, sicuro che avrebbe trovato un degno rifugio dove soggiornare. Gherardo, questo il suo nome, era l’autorevole comandante, il potente e valoroso combattente, per tutti un uomo nobile nell’animo e nello spirito.
Per tutti… ma non per me.
Mi hanno chiamata Gaia, ma il mio vero nome era Aica, come molte altre Aiche erano vissute prima di me nella mia famiglia dei Da Camino. Mia madre, Chiara Dalla Torre, mi aveva fortemente voluta: per lei diventare madre era la cosa più importante. Mio padre aveva fatto in modo di esaudire questa sua unica richiesta, pentendosi amaramente di averle ceduto, dopo che questa non aveva dato alla luce un altro figlio maschio. Per Gherardo, da quel momento, ero sempre e solo stata un impiccio. Un problema che aveva inizialmente delegato a mia madre. La vita, però, aveva trovato il modo di mettere mio padre di fronte alla responsabilità della paternità: mia madre, da lui continuamente criticata per aver messo al mondo un’altra femmina, aveva prematuramente lasciato le sue delicate spoglie passando a miglior vita.
A quel punto il fardello della mia educazione era caduto come un macigno sulle spalle di Gherardo, da tutti conosciuto come Il Giusto. Proprio a causa di questa sua immagine pubblica, egli non si era potuto liberare dall’ingombro di una figlia mai voluta.
Aveva cercato in tutti i modi di crescermi come aveva fatto con gli altri figli maschi: facendomi esercitare con l’arco e con la spada. Ossessionato dalla competizione, e preoccupato di dimostrare che la sua stirpe altro non era che riflesso del suo stesso valore, aveva impegnato fin da giovani me e i miei fratelli in insulse sfide, che avevano contribuito a far crescere malumori e invidie tra noi figli.
Tutti i miei sforzi di eccellere nelle arti del combattimento per soddisfarlo erano stati vani: nonostante i miei risultati con spada ed arco fossero soddisfacenti per una giovane donzella, ero costantemente denigrata da mio padre, che tanto si impegnava a non riconoscere i miei miglioramenti facendo il possibile per scoraggiarmi e farmi sentire incapace. La mia dedizione al combattimento era un timido tentativo di compiacerlo, e intenerirlo, nonostante a me di una cosa sola interessasse occuparmi: di bellezza. E per me la bellezza erano le parole, incastonate nei versi delle poesie.
Gherardo, che mal sopportava questa mia inclinazione, non perdeva occasione per sottolineare l’inutilità delle mie passioni e inclinazioni. L’occasione d’oro per seppellire ogni mia velleità di dilettarmi di poesia, gli si era presentata durante il banchetto preparato in casa nostra in onore di Dante. Così, doveva aver pensato mio padre, avrebbe scongiurato la possibilità che io continuassi ad appassionarmi e occuparmi di letteratura. Attuando una delle sue strategie più subdole, mi aveva presentata a Dante come poetessa, affinché gli leggessi le mie poesie. Questo perché mio padre, il buon condottiero, era convinto in cuor suo della mia inadeguatezza anche nello scrivere. Ma se non aveva perso occasione di farmelo notare in privato, egli, a causa del suo buon nome, aveva sempre celato l’opinione che aveva di me in pubblico, mascherandola sotto forma di elogio di fronte agli altri. Quale miglior occasione di non esporsi, facendo sì che fosse proprio un poeta ad umiliarmi al posto suo?
“…Vi prometto che mia figlia saprà tenervi degna compagnia,” aveva detto con un ghigno di sfida a me, rivolgendosi a Dante…
E l’Alighieri, che dallo spirito doveva essere sempre guidato, aveva visto nei miei occhi e nel mio cuore l’imbarazzo dovuto all’umiliazione che di lì a poco avrei subito, leggendo i miei umili versi a un poeta così dotato. Egli allora, incoraggiandomi come un vero padre, si era rivolto a me con una dolcezza che solo mia madre aveva avuto nei miei confronti:
“Gaia donzella, vi invito a farmi dono dei vostri versi, affinché io possa portarne l’eco con me, come balsamo nei giorni d’esilio.”
Gaia. Gioiosa, allegra, festosa… tutto ciò che non ero mai stata vivendo con mio padre Gherardo.
In quel momento quelle parole delicate e premurose avevano agito lenendo le ferite inferte al mio cuore da quel padre che tanto avevo infastidito con la mia esistenza. Aica, la giovincella che Gherardo tanto amava disprezzare facendola sentire inutile e incapace, aveva cessato di esistere. In quel momento, Gaia era nata. Avevo trovato il coraggio di recitare i miei versi di fronte al sommo poeta, che con riconoscenza nei miei confronti per averglieli recitati, li aveva elogiati. Mio padre, livido di rabbia, si era dovuto rendere conto come il suo piano fosse miseramente fallito.
Da quel giorno non ho mai smesso di dedicarmi alle parole, la cui potenza e forza ho capito, possono cambiare il destino di chi le pronuncia, ascolta, o scrive. Da quel giorno ho creduto nel potere delle parole, che mi hanno guidata lontana da quel padre padrone che voleva soffocare il mio talento, non perché mi mancasse o perché lui non fosse in grado di vederlo, ma poiché invidioso che qualcuno potesse eccellere in qualcosa che lui non conosceva. Da quel giorno grazie ai versi, mi sono liberata come figlia e come donna, ho intrapreso il mio cammino di libertà poetando e dedicandomi a ciò che mi ha resa felice, lontano da mio padre, dalle sue paure e dai suoi limiti, e sono diventata Gaia Da Camino, la prima poetessa di versi in volgare.
Nota: Gaia da Camino è figura storica realmente esistita, vissuta nel XIII secolo e citata da Dante nella Commedia. Questa è quanto ci piace pensare avrebbe potuto raccontare lei.
