La voce dei Battuti: memorie e spiritualità di Serravalle antica.
- E.
- 7 ago
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Una narrazione storica ispirata alla confraternita dei Battuti, già attiva a fine XIII secolo a Serravalle, la cui sede è lo splendido Oratorio dei SS. Lorenzo e Marco.
Quando avevo preso parte alla mia prima processione, anche mio padre mi aveva spaventato: ci muovevamo in gruppo con passo lento e pesante, cadenzato da quell’attrezzo, la disciplina, con cui tutti si battevano il petto. Le vesti bianche, per la penitenza, e le preghiere sussurrate lungo tutto il percorso, fino ad arrivare alla Chiesa di Santa Maria, vicino all’orologio.
In quell’occasione, non avevo più saputo riconoscere il volto fiero e deciso di mio padre. Lui, come i nostri confratelli, aveva sempre aiutato i bisognosi. Aveva il coraggio di chi non si lascia sopraffare dalla pena per le disgrazie con cui la vita spesso colpisce chi non sa difendersi. Così aveva trascorso molte delle sue notti dacché ne avessi memoria: fasciando le ferite di uomini che cercavano di procurarsi del cibo nei modi più disparati, accudendo donne partorienti durante le loro lunghe notti febbricitanti, dando il pane a bimbi che erano ridotti pelle ed ossa.
Avevo sempre accompagnato mio padre all’Oratorio di San Lorenzo e Marco, lo avevo sempre osservato mentre aiutava i poveri. Facendomi ragazzino, tra un incarico e l’altro che mio padre mi aveva affidato – come correre a prendere una garza, o portare dell’acqua – mi ero spesso fermato a guardare in su, verso la parete principale dell’oratorio. Fissando la facciata, i miei occhi avevano incrociato quelli semichiusi e sofferenti del Cristo in croce, nel grande affresco che qualche artista aveva completato quando forse io non ero ancora nato. Quando finalmente ero riuscito a scorgere in quel dipinto una certa dignità nella sofferenza del Cristo, il suo dolore contenuto nel suo sguardo abbassato, lo sguardo di chi ha accettato il suo destino, avevo deciso di diventare a mia volta un confratello dei Battuti.
Ma una volta trovatomi in quella lenta camminata di afflizione, non riuscivo a comprendere quale necessità spingesse mio padre e i confratelli a colpirsi con la disciplina. La maggior parte di loro si contorceva sotto i colpi autoinflitti. Durante quella prima processione ricordo di aver finto di colpirmi il petto con veemenza, ma in realtà avevo agito con tutta la codardia che avevo in corpo, senza applicare ai miei gesti alcuna forza attiva. Mio padre, che non era di certo stolto, si era limitato a guardarmi con sdegno una volta ritornati a casa, ma nel suo silenzio avevo intuito esserci della comprensione.
Passavano i giorni e i mesi, mio padre ingrigiva nella barba e io mi facevo più alto e robusto, ma le nostre mani continuavano a impegnarsi a dare il pane a chi aveva fame, a levare il sangue da ferite aperte, e a dare ricovero a chi non aveva un tetto per ripararsi dal freddo.
La sofferenza che vedevo negli occhi dei bisognosi non era mai motivo di scoramento: io, mio padre e i miei confratelli eravamo concentrati sulla necessità del momento, agendo velocemente, senza pensare troppo.
Con gli anni, le processioni avevano assunto però un significato diverso anche per me. Era proprio nei silenzi dei passi che rimbombavano nelle strette vie di Serravalle, che quell’afflizione, quel dolore, emergeva in noi da qualche meandro dell’anima come un corpo estraneo. Le preghiere che intonavamo camminando servivano solo a farla arrivare alla superficie del nostro corpo.
Ed era solo allora, che io, mio padre e i miei confratelli sentivamo quel male tangibile e vivo farsi parte di noi. Non sapendo cosa farcene, cercavamo in qualche modo sbarazzarcene, scacciandolo con la disciplina. Così, col tempo, i miei colpi si erano fatti forti e decisi, e più mi percuotevo, più mi sentivo libero.
Al termine della processione, ci attendeva la messa nella Chiesa di Santa Maria, conosciuta ai più come Santa Maria dei Battuti. Varcando la soglia, tutti noi confratelli, alleggeriti i nostri cuori, pregavamo Dio non tanto affinché cessassero la fame, la carestia e la povertà. Pregavamo affinché Egli ci aiutasse sempre a liberarci di quel dolore, che per quelli meno fortunati di noi, lì rimaneva, sempre presente, come uno scomodo simulacro.




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